Da piccoli
Terenzio se ne accorse dalla bicicletta. Quando cercò di salirci sopra, al parco, constatò che faticava a toccare con i piedi per terra. Scese, diede un’occhiata perplessa, poi svitò il fermo e abbassò la sella. Forse a sua insaputa gliel’aveva toccata qualcuno: magari qualche ragazzino che in cortile aveva voluto fargli uno scherzo. Terenzio scrollò le spalle e prese a pedalare felice. Si dimenticò dell’episodio fino a quando, il mattino dopo, s’infilò le scarpe. Per quanto chiudesse le stringhe, le sentiva larghe. Scrollò le spalle, s’infilò un secondo paio di calze e tutto tornò a posto. Ma salendo sull’autobus ebbe l’impressione che i gradini fossero più alti del solito. E quando al pomeriggio tornò a casa per schiacciare il campanello del citofono, l’ultimo in alto a destra, fu costretto ad allungare tutto il braccio e anche così ci arrivava solo per un pelo. La mamma gli lesse subito in faccia che qualcosa non andava e Terenzio trovò il coraggio di raccontarle ogni cosa.
«Mamma, sto rimpicciolendo!»
La mamma sorrise e lo confortò: paure di un bambino di dodici anni. Tuttavia per il resto della giornata, approfittando dei momenti in cui Terenzio guardava da un’altra parte, prese a misurarlo e a rimisurarlo con gli occhi. Quando alla sera si addormentò estrasse il metro da sarta e glielo stese sopra, in silenzio, nella penombra, da capo a piedi, tre o quattro volte. Non c’era dubbio: Terenzio era più piccolo di due centimetri. Si confidò con il marito che naturalmente si fece una bella risata: paure da donne! Con sicumera afferrò il metro e entrò in punta di piedi nella camera del figlio. Quando ne uscì, era pallido come uno straccio. Non c’era dubbio. Terenzio era più piccolo di quando l’aveva misurato l’ultima volta, due settimane prima: il segno di matita sul muro era ancora chiarissimo.
Il giorno seguente i genitori portarono il bambino dal medico, il quale anche lui misurò e rimisurò Terenzio confrontando i dati con quelli annotati nella cartella e arrivando alle stesse conclusioni. A quel punto, presentendo di avere a che fare con un caso medico che avrebbe fatto scalpore, lo tempestò di domande: cosa aveva fatto, chi aveva visto, cosa aveva mangiato, con chi aveva parlato, perfino cosa aveva letto negli ultimi giorni. Non emerse nulla di strano, se non una circostanza: proprio il giorno in cui Terenzio aveva cominciato a restringersi, suo fratello Giuseppe era partito militare con destinazione una pericolosa zona di guerra in Medio Oriente. Per quanto il dottore, e poi anche i genitori, lo tempestassero di domande, non saltò fuori nient’altro di particolare.
Dall’episodio della bicicletta Terenzio prese a rimpicciolire, inesorabilmente, giorno dopo giorno. Ogni mattina il papà lo misurava e ogni mattina scuoteva la testa. Il processo non sembrava uniforme: a volte il bambino si riduceva di colpo di un centimetro, alle volte solo di un millimetro. Da bambino di dodici anni che era, già quasi ragazzino, Terenzio a poco a poco perse i muscoli sul petto e sulle braccia, la leggera peluria scura che aveva cominciato a crescere sulle gambe s’imbiondì e poi scomparve, le scapole sulla schiena ripresero a sporgere, i denti definitivi che già erano cresciuti rientrarono nelle gengive e lasciarono il posto a quelli da latte, gli occhi si fecero più grandi rispetto alla testa, i capelli più fini e setosi. Il cambiamento era solo fisico, poiché Terenzio continuava a frequentare brillantemente la scuola, dove collezionava ottimi voti. Soffriva soltanto durante gli intervalli perché, così magro e gracilino com’era diventato, aveva perso prima il posto di titolare come centravanti nella squadra della classe, poi era stato retrocesso a centrocampo, quindi in difesa, infine in porta e poi definitivamente accantonato. Quando per la prima volta lo lasciarono fuori squadra scoppiò a piangere.
Alla fine della terza media dimostrava dieci anni e quando fece il suo ingresso nella prima liceo i compagni si girarono a fissalo ridacchiando: «Guarda che hai sbagliato, le elementari sono qui davanti». Anche i professori, che pure erano stati avvertiti e che facevano di tutto per dissimulare il loro disagio, ogni tanto tradivano l’imbarazzo. Tutto questo ebbe come risultato che Terenzio s’impegnò sempre più nello studio, fino a diventare il primo non solo della classe ma di tutta la scuola. Quelli che non conoscevano la sua storia lo giudicavano un bambino prodigio. Terminò il liceo in tre anni e iniziò il primo anno di università (Economia) che ormai dimostrava soltanto otto anni. I professori, sconcertati, dapprima chiesero chiarimenti, poi gli parlarono sospettosi, quindi impararono a rispettarlo. Con i suoi pantaloni corti e i calzettoni alla caviglia, Terenzio era comunque il più bravo di tutti. Così bravo che, alla fine dell’università, divenne assistente in facoltà. Da quel giorno si verificò il curioso spettacolo di un bimbetto di sei anni che interrogava severo ragazzi di quindici o anche vent’anni più vecchi di lui. Era così bravo che presto venne notato dall’industria e nel giro di pochi mesi venne cooptato nel consiglio di amministrazione di una grande multinazionale. A ogni riunione la sua assistente personale aveva il compito di preparare, intorno al tavolo di rappresentanza, il suo seggiolone. Nonostante tutti gli sforzi e le ricerche nessuno trovò il modo di frenare il processo, e a trent’anni Terenzio ne dimostrava tre. Durante le riunioni era sempre più difficile capire chiaramente cosa dicesse, e ormai da tempo aveva dovuto rinunciare a parlare in inglese e francese. Quando si spostava all’estero, la sua assistente al momento della prenotazione si raccomandava di sistemare una culla nella suite, e gli impiegati spesso non capivano a cosa servisse una culla a un importante uomo d’affari. Nei mesi che seguirono Terenzio riprese l’uso del ciuccio, e da ultimo nelle cene di lavoro, mentre gli altri consumavano pasti raffinati e scolavano bottiglie di vino raro, lui si accontentava di pappe frullate o anche solo di un biberon di latte. A causa delle sue manine sempre più piccole, era stato necessario ordinare un cellulare costruito su misura con i tasti particolarmente minuscoli.
I genitori di Terenzio erano molto preoccupati, e lo era anche suo fratello Giuseppe, che nel frattempo, per fortuna, era tornato sano e salvo dalla guerra. Tutti sapevano, anche se nessuno aveva il coraggio di dirlo, qual era il futuro di Terenzio. Rimpicciolire sempre più fino a scomparire del tutto. E sarebbe accaduto così se un giorno Terenzio non fosse andato a trovare sua mamma. Aveva concesso un giorno di libertà all’assistente personale, mentre il padre era a sua volta lontano di casa. Alla mamma sembrò di essere tornata indietro nel tempo, a tanti anni prima, quando Terenzio era piccolo sul serio e lei se lo cullava nelle braccia. Ormai Terenzio non riusciva quasi più a camminare: si limitava a gattonare e biascicava a fatica la lingua tartagliata dei lattanti. Per fortuna, o per sfortuna, mentre si era inerpicata su una sedia per cercare un vecchio biberon, la mamma perse l’equilibrio e cadde all’indietro. Batté la testa e svenne. In casa non c’era nessun altro, se non Terenzio che dal suo seggiolone aveva seguito la scena. Nessun altro poteva aiutarla, se non lui. Il bambino fu costretto a trovare la forza di scendere da solo, gattonare fino al telefono, comporre il numero e chiamare in qualche modo aiuto. I poliziotti, che arrivarono dopo pochi minuti, impiegarono parecchie ore a ricostruire quel che era successo.
Ma il miracolo ormai era accaduto. Da quel giorno Terenzio ricominciò a crescere. E non alla stessa velocità con cui era regredito. Nel giro di due mesi aveva dieci anni, e in capo a dodici aveva riacquistato l’aspetto della sua vera età, trentacinque anni. I genitori diedero una grande festa in suo onore e tutti insieme tirarono un enorme sospiro di sollievo. Finalmente anche loro, come lui, potevano invecchiare serenamente.
Terenzio se ne accorse dalla bicicletta. Quando cercò di salirci sopra, al parco, constatò che faticava a toccare con i piedi per terra. Scese, diede un’occhiata perplessa, poi svitò il fermo e abbassò la sella. Forse a sua insaputa gliel’aveva toccata qualcuno: magari qualche ragazzino che in cortile aveva voluto fargli uno scherzo. Terenzio scrollò le spalle e prese a pedalare felice. Si dimenticò dell’episodio fino a quando, il mattino dopo, s’infilò le scarpe. Per quanto chiudesse le stringhe, le sentiva larghe. Scrollò le spalle, s’infilò un secondo paio di calze e tutto tornò a posto. Ma salendo sull’autobus ebbe l’impressione che i gradini fossero più alti del solito. E quando al pomeriggio tornò a casa per schiacciare il campanello del citofono, l’ultimo in alto a destra, fu costretto ad allungare tutto il braccio e anche così ci arrivava solo per un pelo. La mamma gli lesse subito in faccia che qualcosa non andava e Terenzio trovò il coraggio di raccontarle ogni cosa.
«Mamma, sto rimpicciolendo!»
La mamma sorrise e lo confortò: paure di un bambino di dodici anni. Tuttavia per il resto della giornata, approfittando dei momenti in cui Terenzio guardava da un’altra parte, prese a misurarlo e a rimisurarlo con gli occhi. Quando alla sera si addormentò estrasse il metro da sarta e glielo stese sopra, in silenzio, nella penombra, da capo a piedi, tre o quattro volte. Non c’era dubbio: Terenzio era più piccolo di due centimetri. Si confidò con il marito che naturalmente si fece una bella risata: paure da donne! Con sicumera afferrò il metro e entrò in punta di piedi nella camera del figlio. Quando ne uscì, era pallido come uno straccio. Non c’era dubbio. Terenzio era più piccolo di quando l’aveva misurato l’ultima volta, due settimane prima: il segno di matita sul muro era ancora chiarissimo.
Il giorno seguente i genitori portarono il bambino dal medico, il quale anche lui misurò e rimisurò Terenzio confrontando i dati con quelli annotati nella cartella e arrivando alle stesse conclusioni. A quel punto, presentendo di avere a che fare con un caso medico che avrebbe fatto scalpore, lo tempestò di domande: cosa aveva fatto, chi aveva visto, cosa aveva mangiato, con chi aveva parlato, perfino cosa aveva letto negli ultimi giorni. Non emerse nulla di strano, se non una circostanza: proprio il giorno in cui Terenzio aveva cominciato a restringersi, suo fratello Giuseppe era partito militare con destinazione una pericolosa zona di guerra in Medio Oriente. Per quanto il dottore, e poi anche i genitori, lo tempestassero di domande, non saltò fuori nient’altro di particolare.
Dall’episodio della bicicletta Terenzio prese a rimpicciolire, inesorabilmente, giorno dopo giorno. Ogni mattina il papà lo misurava e ogni mattina scuoteva la testa. Il processo non sembrava uniforme: a volte il bambino si riduceva di colpo di un centimetro, alle volte solo di un millimetro. Da bambino di dodici anni che era, già quasi ragazzino, Terenzio a poco a poco perse i muscoli sul petto e sulle braccia, la leggera peluria scura che aveva cominciato a crescere sulle gambe s’imbiondì e poi scomparve, le scapole sulla schiena ripresero a sporgere, i denti definitivi che già erano cresciuti rientrarono nelle gengive e lasciarono il posto a quelli da latte, gli occhi si fecero più grandi rispetto alla testa, i capelli più fini e setosi. Il cambiamento era solo fisico, poiché Terenzio continuava a frequentare brillantemente la scuola, dove collezionava ottimi voti. Soffriva soltanto durante gli intervalli perché, così magro e gracilino com’era diventato, aveva perso prima il posto di titolare come centravanti nella squadra della classe, poi era stato retrocesso a centrocampo, quindi in difesa, infine in porta e poi definitivamente accantonato. Quando per la prima volta lo lasciarono fuori squadra scoppiò a piangere.
Alla fine della terza media dimostrava dieci anni e quando fece il suo ingresso nella prima liceo i compagni si girarono a fissalo ridacchiando: «Guarda che hai sbagliato, le elementari sono qui davanti». Anche i professori, che pure erano stati avvertiti e che facevano di tutto per dissimulare il loro disagio, ogni tanto tradivano l’imbarazzo. Tutto questo ebbe come risultato che Terenzio s’impegnò sempre più nello studio, fino a diventare il primo non solo della classe ma di tutta la scuola. Quelli che non conoscevano la sua storia lo giudicavano un bambino prodigio. Terminò il liceo in tre anni e iniziò il primo anno di università (Economia) che ormai dimostrava soltanto otto anni. I professori, sconcertati, dapprima chiesero chiarimenti, poi gli parlarono sospettosi, quindi impararono a rispettarlo. Con i suoi pantaloni corti e i calzettoni alla caviglia, Terenzio era comunque il più bravo di tutti. Così bravo che, alla fine dell’università, divenne assistente in facoltà. Da quel giorno si verificò il curioso spettacolo di un bimbetto di sei anni che interrogava severo ragazzi di quindici o anche vent’anni più vecchi di lui. Era così bravo che presto venne notato dall’industria e nel giro di pochi mesi venne cooptato nel consiglio di amministrazione di una grande multinazionale. A ogni riunione la sua assistente personale aveva il compito di preparare, intorno al tavolo di rappresentanza, il suo seggiolone. Nonostante tutti gli sforzi e le ricerche nessuno trovò il modo di frenare il processo, e a trent’anni Terenzio ne dimostrava tre. Durante le riunioni era sempre più difficile capire chiaramente cosa dicesse, e ormai da tempo aveva dovuto rinunciare a parlare in inglese e francese. Quando si spostava all’estero, la sua assistente al momento della prenotazione si raccomandava di sistemare una culla nella suite, e gli impiegati spesso non capivano a cosa servisse una culla a un importante uomo d’affari. Nei mesi che seguirono Terenzio riprese l’uso del ciuccio, e da ultimo nelle cene di lavoro, mentre gli altri consumavano pasti raffinati e scolavano bottiglie di vino raro, lui si accontentava di pappe frullate o anche solo di un biberon di latte. A causa delle sue manine sempre più piccole, era stato necessario ordinare un cellulare costruito su misura con i tasti particolarmente minuscoli.
I genitori di Terenzio erano molto preoccupati, e lo era anche suo fratello Giuseppe, che nel frattempo, per fortuna, era tornato sano e salvo dalla guerra. Tutti sapevano, anche se nessuno aveva il coraggio di dirlo, qual era il futuro di Terenzio. Rimpicciolire sempre più fino a scomparire del tutto. E sarebbe accaduto così se un giorno Terenzio non fosse andato a trovare sua mamma. Aveva concesso un giorno di libertà all’assistente personale, mentre il padre era a sua volta lontano di casa. Alla mamma sembrò di essere tornata indietro nel tempo, a tanti anni prima, quando Terenzio era piccolo sul serio e lei se lo cullava nelle braccia. Ormai Terenzio non riusciva quasi più a camminare: si limitava a gattonare e biascicava a fatica la lingua tartagliata dei lattanti. Per fortuna, o per sfortuna, mentre si era inerpicata su una sedia per cercare un vecchio biberon, la mamma perse l’equilibrio e cadde all’indietro. Batté la testa e svenne. In casa non c’era nessun altro, se non Terenzio che dal suo seggiolone aveva seguito la scena. Nessun altro poteva aiutarla, se non lui. Il bambino fu costretto a trovare la forza di scendere da solo, gattonare fino al telefono, comporre il numero e chiamare in qualche modo aiuto. I poliziotti, che arrivarono dopo pochi minuti, impiegarono parecchie ore a ricostruire quel che era successo.
Ma il miracolo ormai era accaduto. Da quel giorno Terenzio ricominciò a crescere. E non alla stessa velocità con cui era regredito. Nel giro di due mesi aveva dieci anni, e in capo a dodici aveva riacquistato l’aspetto della sua vera età, trentacinque anni. I genitori diedero una grande festa in suo onore e tutti insieme tirarono un enorme sospiro di sollievo. Finalmente anche loro, come lui, potevano invecchiare serenamente.